Nucara alla festa milanese del Pdl/La crisi del Paese e le piccole e medie imprese Il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà Sintesi dell’intervento al convegno "Sostenere le piccole imprese per far crescere l’Italia", Milano, Festa della Libertà, 28 settembre 2010. di Francesco Nucara Si è discusso, in questi giorni, con pareri contrastanti, se la situazione italiana sia migliore o peggiore di quella degli altri Paesi. Il tema non è appassionante, anche perché le risposte sono quanto mai incerte. Su un punto, invece, si può concordare. Come ha ancora recentemente ammesso Emma Marcegaglia, pure critica nei confronti del Governo, il peggio dovrebbe essere passato. Dovrebbe, dico io. Le incertezze ancora sono tante. Molte, come l’andamento altalenante del dollaro, sono del tutte sottratte al nostro controllo. Nel confronto tra ottimisti e pessimisti, mi schiero tuttavia dalla parte dei primi. Accettiamo quindi le tesi di Confindustria. E diciamo subito che è stato un piccolo miracolo. Lo scorso anno si parlava di una crisi paragonabile a quella del ‘29. Pochi ricordano quanto durò e quali furono gli effetti sulla tenuta democratica dei principali paesi europei. Il nazismo nacque sulle ceneri della Repubblica di Weimar con Hitler che prese il potere nel 1933. Vi fu quindi il riarmo bellico, che tra le tante cose significò un tentativo di rimettere in moto il ciclo economico. Quindi la guerra con tutte le conseguenze che comportò. La crisi attuale è durata invece meno di due anni e di ciò dobbiamo tutti rallegrarci, maledicendo, semmai, quegli economisti che non avevano esitato a scomodare la storia per giustificare le loro lacune nel prevederne l’imminente inizio. Com’è potuto accadere? Le ragioni sono varie e complesse. Alcune riconducibili ad un rinnovato impegno dello Stato che i talebani del "libero mercato" avevano fino ad allora considerato come lo sterco del diavolo. A differenza di altri, quest’impegno, in Italia, è stato di gran lunga più contenuto. Cito un solo dato. Il debito pubblico, nei Paesi del G7 ha quasi raggiunto il livello italiano. Quello del nostro Paese è invece aumentato in misura minima. Non siamo più la pietra dello scandalo. Nel 2015, prevede il Fondo monetario, il debito medio delle economie dei principali Paesi sarà pari al 110 per cento: solo qualche punto in meno rispetto al nostro stock, maturato tuttavia in un intervallo ben più ampio: che è durato circa trenta anni. L’Italia è uscita – o sta uscendo dalla crisi – senza far ricorso al bastone di un nuovo dirigismo statale. Ha potuto farlo grazie ad una struttura produttiva che è stata capace di reggere ad un urto dalle dimensioni che ho appena ricordato. Il merito è tutto – insisto in questa valutazione – di un sistema di imprese che, senza attendersi aiuti dall’alto, è riuscito, con le proprie forze, a misurarsi con fenomeni di natura planetaria. Di questi successi dobbiamo essere tutti orgogliosi, ma devono esserlo soprattutto coloro che hanno combattuto in prima linea. Parlo di migliaia e migliaia di imprenditori. Naturalmente non è andato tutto bene. Molti non hanno retto all’accresciuta concorrenza. Le vertenze aperte presso il Ministero dello sviluppo economico, nonostante l’assenza del suo principale responsabile politico, sono ancora numerose. Le banche non hanno aiutato. Hanno stretto il credito, preferendo investire nel trading finanziario, dove i margini di profitto sono maggiori. Ma non chiedo di abbandonare i criteri prudenziali nella gestione del credito. Questa materia, per disposizioni di carattere costituzionale, può essere equiparata ad un bene pubblico, da trattare con la necessaria attenzione. In Germania, tuttavia, lo si è visto nelle recenti vicende legate all’Unicredit, prevale un’attenzione maggiore per il territorio e le esigenze della relativa produzione. Pur con queste difficoltà, il mondo della piccola e media industria ha retto e, per alcuni versi, si è consolidato. Lo dimostrano gli ultimi dati congiunturali. Il PIL del secondo trimestre è cresciuto dello 0,5 per cento. L’estero vi ha contribuito per lo 0,6. Questa differenza sta ad indicare la forte vocazione verso l’export delle nostre imprese, ma anche il freno esercitato da una domanda interna che non cresce a sufficienza. Per comprendere questo secondo aspetto ricordo che quella crescita dello 0,5 per cento è frutto di una media fortemente sbilanciata: un centro nord che cresce dello 0,8 per cento, al pari del resto dell’Europa, ed un Mezzogiorno che regredisce dello 0,3 per cento. Questi dati, per quanto consolanti, non ci soddisfano. Sappiamo che quel tasso di crescita è comunque insufficiente. Ci fa regredire nei confronti europei e rischia di avere un effetto negativo sugli stessi equilibri finanziari. Il debito può diminuire solo se al rigore di questi anni sapremo unire un più forte impegno per la crescita dell’economia reale. In questo schema quindi il sistema delle piccole e medie imprese mantiene una sua centralità. E’ stato detto che occorre una politica industriale. Non credo sia questo il punto. Il termine politica industriale evoca vecchie tendenze dirigiste che appartengono ad un lontano passato e che non hanno prodotto grandi risultati. Negli anni ‘70 l’Italia aveva un nucleo robusto di grandi imprese. Quasi tutte a partecipazione statale o comunque dipendenti, per sussidi, trasferimenti o quant’altro da questo grande elemosiniere. La collusione, inevitabile, con la politica ne aveva, tuttavia, indebolito il management. Nominati dalla politica, a quest’ultima rispondevano. Ed il prezzo pagato era la loro progressiva deresponsabilizzazione rispetto al mercato. Diveniva più importante condiscendere rispetto alle richieste, molte volte demagogiche, dei propri dipendenti, organizzati sindacalmente, piuttosto che misurarsi con la concorrenza ed il dare e l’avere dei propri bilanci. La crisi del ‘92 ha spazzato via questo mondo, senza eliminare del tutto le cause che erano all’origine di quelle difficoltà. Come sapete la maggior parte di quelle imprese sono state vendute a prezzi stracciati. Molti di quei marchi sono ancora sul mercato: gestiti da imprenditori italiani o da multinazionali. E’ bastato il ricambio del management per far scomparire passività e punte endemiche di crisi. Penso all’Alitalia o alle FFSS. Dove questo ricambio è stato più faticoso, come in Telecom, la luce al di là del tunnel ancora non si vede. I "capitani coraggiosi" si sono incanutiti. Altri protagonisti sono scomparsi dalla scena finanziaria, come neve al sole. Risultato? Oggi, salvo alcune eccezioni, non abbiamo più grandi player in grado di competere a livello internazionale. Sono questi i motivi che mi spingono a dire che non abbiamo bisogno di una politica industriale, ma di una politica a favore delle imprese. Di tutte le imprese: che siano nel manifatturiero o nei servizi. Nell’alimentare – il made in Italy – come nel turismo. Una politica, come si dice, orizzontale, che non si ponga l’obiettivo di far nascere dal nulla, come Venere dal mare, un’attività qualsiasi. Ma sappia modificare quel contesto che impedisce oggi alle imprese di crescere e di svilupparsi. E’ quindi un intervento a tutto campo quello che serve. A partire dalle relazioni sindacali. Se il management pubblico avesse avuto metà della forza e della determinazione di Sergio Marchionne, nel pretendere una riscrittura dei vecchi contratti, oggi la storia dell’industria italiana sarebbe diversa. Insieme alle migliaia di piccole e medie imprese, avremmo i cosiddetti "campioni nazionali", che hanno tutti gli altri Paesi, in campi, come l’energia – penso al nucleare – i grandi lavori, la meccanica, l’elettronica, la chimica; in cui avevamo conquistato posizioni di assoluta eccellenza. Ma piangere sul latte versato, serve a poco. Oggi dobbiamo guardare in avanti. Il dato di partenza è il tessuto produttivo esistente che dobbiamo curare con l’attenzione che si deve ai gioielli di famiglia. Per ottenere risultati concreti occorre intervenire su campi diversi, a partire dalla semplificazione burocratica, quindi sugli oneri impropri che oggi condizionano il libero sviluppo dell’attività produttiva. Penso solo alla carenza delle infrastrutture sia materiali che immateriali. Naturalmente c’è un problema di risorse. Possiamo però compilare un’agenda che tenga conto di questo vincolo e cominciare ad operare in modo graduale, ma continuo. Alcune riforme non costano. Penso al carico burocratico. Ed allora perché non si provvede? Perché esiste un contesto culturale che non è favorevole alla libera intrapresa. Siamo ancora prigionieri delle culture del ‘900. Cito solo un esempio. Nei giornali fanno scandalo le dichiarazione dei redditi. Il piccolo imprenditore che guadagna meno dei suoi dipendenti. E’ una realtà che esiste e va condannata. Ma quanti parlano della fatica a cui lo stesso è sottoposto ogni giorno, per inventarsi cose nuove da produrre, per ridurre i costi, per cercare nuovi sbocchi alla sua produzione? Pochi. Prevale l’idea che l’imprenditore deve essere, soprattutto, un sorvegliato speciale. Regole, vincoli, accertamenti, diffidenza. Sulle cose da fare non mi dilungo. L’elenco è vasto. Se ne parla da anni. Se finora si è fatto poco questo si deve soprattutto a quei limiti culturali, ancor prima che politici, di cui dicevo in precedenza. Un solo accenno ad un problema cruciale: il fisco. Silvio Berlusconi è solito raccontare una barzelletta. Una famiglia di imprenditori vive in una villetta nel bresciano. Di notte bussano alla porta. Il capo famiglia apre la porta e si trova di fronte un uomo armato. "Questa è una rapina": dice il delinquente. "Meno male – risponde l’imprenditore – pensavo che fosse un agente del fisco". Quando si parla di IRAP, ad esempio, la gente comune non capisce. Cosa sarà mai un’imposta del 4 o del 5 per cento a seconda dei casi. Ed è qui che la beffa si somma al danno. Nel 2009 il gettito relativo è stato di circa 31,4 miliardi, quello dell’IRPEG di 33,5. Pur considerando che una parte dell’IRAP è pagata dalla pubblica amministrazione, siamo quasi al raddoppio dell’imposizione fiscale sulle imprese. Tutto questo – ma sta qui la perfidia – non si vede a causa del diverso imponibile fiscale. Non a caso l’imposta fu inventata da Vincenzo Visco: un eredità che ancora oggi pesa drammaticamente sui conti di ogni azienda. Detto questo, vorrei concludere con due osservazioni. La prima è di sintesi. Come si esce dal pantano? Dando uno spazio maggiore al mercato, ma con una differenza fondamentale. Nel centro – nord esso va sostenuto ed ampliato, riducendo il peso dell’intervento pubblico, soprattutto sul fronte del cosiddetto "socialismo municipale". Una critica che continuiamo a rivolgere soprattutto nei confronti della Lega Nord: liberista quando parla di Roma ladrona, statalista quando difende municipalizzate, province e così via. Nel Mezzogiorno, invece, il mercato deve essere ancora creato. Da qui la necessità di un intervento dello Stato, il Piano per il Sud. L’ultima considerazione è di natura politica. Le cose da fare sono ancora molte, nonostante quanto di buono il Governo ha già realizzato. Questo impegno verrebbe meno se si aprisse una crisi dalle incerte prospettive. Consapevole dei rischi che corre il Paese, mi sono personalmente adoprato per scongiurare questa iattura. Sono stato accusato, anche a causa delle intemperanze di qualche rappresentante del mio partito, di partecipare ad una vergognosa compra di voti. Non ho mai pensato che questa potesse essere una soluzione. Come del resto non lo ha pensato il Presidente Berlusconi, con il quale ho mantenuto un ottimo rapporto. Insieme abbiamo discusso: ma di come evitare il vuoto di una crisi politica dagli esiti imprevedibili. Una linea che oggi si sta forse consolidando. E mi fa piacere pensare che, pur nel suo piccolo, il Partito Repubblicano vi abbia contribuito. |